(Il Musicopoeta stanco)
AL PIOVANESCO FOTOCONCERTO D'AMBRA JOVINELLI
Il musicopoeta stanco e quasi affranto si fa catturare suo malgrado
da tanta semplicità d'accordi e il sole anche di notte l'afferra
al cuore, l'arcana memoria ritmica lo avvolge in singolar memoria
affettiva, mentre il cantante di falsetto ci allieta su ritmata ballata di popolar fattura beata. Ritorna poi il pianoforte che interroga, in un chissà se ‘mifafa’ o ‘mimifa’, l'anima rinfrancata.
Le lucette d'orchestra d'Ambra Jovinelli stregata e ripulita ci
allietano con Good Morning Babilonia, nel fotogramma di concerto-
melodia datata o nella da presa macchina dorata di facciata
‘falansteriata’ da romana basilica imitata. Con gli ottimi di banda animata che riprendono una jazzistica melanconico-circense calata. Poi qualche immagine di Foxtrot e Charleston da anni ruggenti, già i Venti, superpotenti e d'Al Capone appartenenti.
La chiave è quella del meta cinema, della meta musica, del meta
spettacolo; per me dei Miracoli architetturale e pisano suggerimento da Pievanscaccin sentimento superanimato.
Il suono della parola è nel testo di Cerami, uno dei gran scrosci vocali che in singolo significato ci costringono a una moralina sul cineparlato dopo il cinemuto appena liquidato.
Ora c'è Caro Diario del celebrato Nanni Moretti, dallo sguardo
nullificato e poco sapienzato: un flauto stringe sul do con tromba e
percussioni a far da brave rompiscatoloni; il piano di Piovani legato strano scandisce ed evoca il ricordo straziante ne La Stanza del Figlio di inquadrature tanto banali quanto di dolore arciforti e mercimoniose, che le note stranote rendono un po' struggenti e quasi semivalenti: che impudenti per chi ha sofferto di simili esperienze sconvolgenti!
Il senso di bandettina a orchestrina od orchestrina a bandettina
ci rende ameni e scanzonati perché ipersaziati. C'è un'ambientazione
fiorentina in un raccontino, detto musicale, di corna costruito e in realtà instupidito, con nometti cretinetti per citazioni non cabarettistiche ma operistiche, con tanto di pezzettini a sonatine che straniano il senso musicale in goliardica avanspettacolare stupidità madornale.
Siamo, non per caso, all'Ambra Jovinelli, ed ecco la canzone di Liolà,
o di Liala? Mi fa ricordare quando quattordicenne, all'Alfieri cineteatro fiorentino, le canzonacce andavo ad ascoltare per le belle ballerine poter guardare. Ed eravamo ancora nel degrado del di guerra bombardato Santa Croce circondariato, come ora siamo nel di Stazione Termini troiaio di paraggi immondezzati e semioscurati intorno agli edifici restaurati e già pesantemente risegnati e dal traffico soffocati.
Scopro, con Verrà dal Mare, la tendona rossa e arricciata che
dà colore al nero della quinta di fondo e il disegnaccio di Luzzati di Pinocchio illustratore per gran flop mallevadore. Il violoncello strugge e incanta con di Rodari le filastrocche al telefono, tutte esili ma mica fragili come quelle di Cerami fatte di ceramica isolante o di vetro sottilissimo, quasi inconsistente. Mentre un nuovo Narciso Parigi ci riporta a decenni fa. C’è qualcosa di stantio, di vieto e fascinoso in questa stupenda fiera di cattivo gusto. Il kitch in fondo è l'anima del prodotto commerciale o il commercio dell'animazione produttiva di discacci tanto tanto venduti e invenduti, tanto tanto clonati e mai nati.
‘Quelle peinosité’ nell'applauso plateale che sembra finale.
Siamo al tempo strumentale del Pinocchio nazionale col Benigno
trasformato in maligno cazzaro internazionale. Tuttavia la delicatezza delle note è in melodia ritmata per flauto, che di Fata Turchina grande amore rammenta vicina vicina, e sembra una dolce speranza per ogni orfano in cangianza da di legno sculturino a stupendo bambino, che tanto anch'io vorrei fra le braccia mie aver da carezzare e coccolare.
Cosicchè il flauto dritto da marcetta ci sballa un'applaudita perfetta.
Or eccoci al ver capolavoro del tema canoro: La Vita è Bella,
che di gran sapienza d'accordo è fatto e rifatto nel tono ditirambico
e giambico d'elegiaco motivo tragico e comicallegro agro. È impossibile
resister a tanto american refrain di leit motiv, che mai del lager in immaginette dietro il pianforte perfette vengono in quadrature riprodotte. Sembra che Arezzo mai sia stato lasciato ed il gioco tragico non sia mai iniziato perché nulla può sembrar stonato, come il final dell'Armata Rossa carro armato.
Perché, io mi chiedo, i migliori da film colonnisti musicali d'Italia son
figli come gli stilisti d'auto alla Giugiaro con Pininfarina a far da apripisti? Vocazioni buffe e rare, di genio italico espressioni un po' bare, ma certo ovunque ricercate e ben pagate. Evviva le eterne marcette mai ristrette in quelle con altere ricette, ma supercredute perfette. La coloritura e la tessitura, come la discreta orchestrazione sanno di somma ambizione d'entrare in orecchio e cuore a tutte l'ore e certo ci riescono finchè in tutti noi i sentimenti crescono.
Un sax contralto c'introduce al volo d'Icaro secondo la musica Fusion verticale, cioè di Grecia atemporale e che sorregge il volo superalare, fino alla spinta vocale di Cerami testuale. Penso al mio ultimo amore musicale che è poi in me
il primo e non oso qui nominarlo, ma certo sollevarlo e crederlo.
Poi la voce di Fellini ci apre ai quasi strazianti motivi di Ginger e Fred,
oramai andati, nella loro danza rapita e lievitata su Cinecittà la malandata.
Il circo che torna e sogna, d'hiver et d'été, trasognato e da molti, non sol bimbi, amato. Giustino Durano, come sempre stranattore, fa il domatore mentre Mastroianni balla colla Masina in calore e per delicate giravolte da Bobolina di Zorba il Greco generate. E paillettes e lustrine e luci iridate su costumi di strass illustrati e così tanto illuminati.
La tromba finalmente ci dà l'attacco dell'intervista sul niente di
Fellini ad 8½ ritmata ed è tanto, tanto celebrata in ritual carrellata, anche se ben poco illuminata, di sabba truccata. Sempre il circo, come quello di Charlot ma è di Fellini con i fratellini, clowns bianchi da Ridolini.
Di ballata gran suonator quel Piovani di eccezional portata. Non
posso che piangere alla canzone “Quanto t'ho Amato” che ritma il bis,
le parole non contano, conta la musica. Quanto t'ho amato e
quanto io t'ami non lo sai perché non te l'ho detto mai.
Purtroppo proprio La Stanza del Figlio viene riprodotto e troppo
lacerante per me è l'indotto sentimento di morte e di malasorte, mentre i canti
di scena vanno avanti per ritrovare il gusto di creazione nuova che sarà prossimamente sulla di vita e di morte proscenio.
Marco Maria Eller Vainicher
(in libera scrittura durante l'omonimo
spettacolo della sera di venerdì 19 marzo 2004) |