MARIA TERESA SALGUEIRO O DULCE PONTES?
(Per Mara da Napoli)
La seconda è un po’ troppo amplificata
l’altra è molto più raffinata…
Questa è un tantino caricata
la prima è forse più equilibrata.
Ambedue fanno sognare in vero imparare
a muovere l’anima con ‘viola de fado’,
chitarra e violoncello suonati in assolo,
duo e trio da musicisti da dio.
La tristezza del fado
chiede che si getti il dado
della sorte così vicina alla morte,
ma per momenti magici
scavallanti gli aspetti tragici.
Così incontro una fascinosa Mara,
che non è la ragazza di Bube o di Cassola,
ma filosofa napoletana cui tocca lavorare
in un qualunque turistico affare,
mentre sul mio amato Benjamin
ha fatto una tesi di estetica
o forse di etica, laddove
la seconda ci divide in opinioni
mentre la prima sempre ci unisce
e ci stupisce nei suoi canoni
sovente nuovi ma sempiterni e fermi.
Come il ‘cantus firmus’
che s’alimenta di melodie
prima monodiche poi polifoniche,
e qui il melisma ci da
un’intera risma di scale e
di modi politonali
per nulla banali,
semmai sapienziali.
Il glissando s’appoggia sul crescendo
ed è una danza che arriva al diminuendo
per poi ritmare e accelerare fino al
nuovo scivolare in forte applaudire.
È tutto un sincopato sospeso e ripreso
in un collettivo ribattuto e accompagnato.
La Dulce si diverte col
pubblico estasiato
in questo folk-pop
quasi fosse un bip-bop
ed è fado rallegrato
con chitarra ‘portuguesa’
per niente vilipesa dal
pizzicato ben ritrovato.
Una zampogna arriva
a deliziarci col violoncello
a fare da basso continuo
e quando parte il canto
della Pontes quello s’acquieta
per non arrivare a coprirla.
Il dialogo è fra
movenze paraorientali
e sonate ornamentali.
Poi una percussione dà
il passo a una lamentazione
quasi mozarabica che sa
di mille e una notte.
Scopro d’esser al posto 17,
il mio numero scaramantico
che mi piace proprio pensare
porti bene invece che male,
così vicino a fanciulla bruna
dalla coscia lunga in gonna corta
che sedurrebbe anche la luna
e circonfuso da questa musica
più orientale che occidentale
con la Dulce che ammicca
giocando sull’eco che
fanno i suoi strumenti.
La Dulce ha lasciato il piano
e fa la cantante a tempo pieno,
oltreché la quasi danzante.
I suoi passi son brevi,
ma per questo efficaci
e i registri ben accordati.
Ora il violoncello sembra
suonare Bach, poi subentra
la chitarra, infine il tremulo
del fado più triste e mesto.
È conciata con una larga
gonna improbabile che la
ingoffisce non poco, mentre
i suoi potenti mezzi vocali
l’elevano a gigantessa del canto.
Il bis è straordinario e provoca
controcanti di un pubblico
competente e intonante: il ché
sa di meraviglia perché è
senza ausilio strumentale.
Lei scatena il pubblico
facendolo danzare ed anch’io
così farei se non stessi scrivendo:
quando quella gonna da danza
rotea, allora i suoi tanti veli
rosso arancio sembrano onde
d’un mare in aurora boreale
e perdono ogni goffaggine.
Il pubblico è in piedi inneggiante,
fischiante, invocante, ed ecco
un altro bis che sa di canzone
alto-napoletana struggente e
tenera come la mia vicina così
attraente e forse sapiente. Tutta
la mia emozione è ben trattenuta
da questa scrittura che mi permette
di interloquire dolcemente con la
mia nuova musa arcipensosa e dagli
occhi dolci e un po’ tristi nella sua
prorompente e accogliente femminilità…
Sarà poi un’amica sua dura e
intransigente, per appuntamento
dichiarato cogente, a impedirmi
di leggere a Mara, la bella napoletana
che ho incontrato proprio di ritorno
dalla sua città, per me di familiare
origine e scaturigine, questo ‘pezzo
d’arte’ che, nonostante tutto, trascriverò
e le invierò dopo tanto indugio.
Marco Maria Eller Vainicher
(5 dicembre 2004) |