LA ‘DANZATTRICE’ VERUSKA IN APNEA D'AMORE
(Uno spettacolo di cuore)
Dal russo al pieghettato di ricamatrice, di rammendatrice, di sartina d’arte antica; un modo goffo e stupendo, tanto accentuato dalle caviglie perfette, fasciate da fibbie a croce di scarpe “tangheire”. C’è un fare del corpo notevole. La sensualità del fiocco sulla natura, il pieghettato lungo la gonna lunga, il pieghettato di seta gialla come una rosa gialla. E il fiocco è a pois rosa grandi, ogni tanto una sparata audio in russo, lei si muove con fare recitativo dall’italiano particolarissimo: l’amore non è piccato, cioè impiccato? O peccato? Poi qualche interiezione russa, una mimica di luce sospese, un dire con un fare morbidissimi, quasi felini e certo felpati.
C’è una critica feroce al matrimonio, alla coppia: i ritmi tutti russi, a volte sfuggono le metriche italiane, esotizzano ampiamente la “phonè” del discorso rendendola vieppiù interessante, sebbene non sempre subito intellegibile e dunque godibile.
Poi ecco “uno spogliarello culturale” davvero spiritoso, anche se un po’ muscoloso: si parla d’amore e il re maschio è nudo nudo.
Un pigiamino “baby doll” smeraldo blu (il mio colore femminile di prima adolescenza), il rosso dei lisci capelli fluenti, il tanga cobalto sotto i veli, il testo composto recitato con inusitata espressività in un italiano a tratti irriconoscibile per gli alloctoni più provinciali, rendono Veruska un piccolo gigante della scena.
Una piccola ninna nanna russa. Una ‘poetatrice”, una creatura che sbanalizza il banale da sola, col suo splendore fisico contro un fondale grigio-scuro su un palcoscenico grigio-chiaro e che le luci del piccolo teatro Agora ne innalzano sapientemente il portamento.
La musica, registrata, è triste nella cadenza popolare russa, mentre lei si esibisce come figura klimtiana di Danae russa: un’Erinni saffica. Ora la sua seta è rossa, rosa rossa, rosso rosa, salmone come la luce caramellosa che la invade. “Nell’amore o si ama o non si ama” “ Perdonateci la nostra felicità”.
L’amore vive, l’amore muore, e gli occhi grandi, acquosi con la trasparenza seducente del piccolo mare protetto di un atollo, con gli zigomi alti di Veruska appunto, ci inchiodano alla sua coreografia quasi egizia, nelle mosse dadà.
È donna, donna consumata dall’apnea che dà titolo alla sua “performance”, al suo monologo agito, oltreché recitato e danzato.
La sua bellezza, nel perduto amore, diviene dolente, il suo viso sfatto ma tuttavia matto, dunque fascinoso, ossianico. Come usare del proprio volto, del proprio corpo, di sé per donarci emozioni dolci amare. C’è stile nel suo dirsi e forse ancor più nel suo farsi corporale e spirituale.
Che la sua passione la preservi dalla mercificazione!
Marco Maria Eller Vainicher
(2 febbraio 2004) |