IL CONCERTO PER PIANOFORTE SOLO DI SABATO 8 GENNAIO 2005 CON MICHAEL LEVINAS A VILLA MEDICI DI ROMA

 

Colpisce la partecipazione del pubblico con la silente religiosità dell’ascolto di un preludio e fuga bachiano morbidamente eseguito “alla francese” e sommessamente proposto, in quei brani del Primo Quaderno del Clavicembalo Ben Temperato che, con l’esecuzione pianistica, raggiunge vertici sublimi al nostro orecchio per la varietà del timbro grazie all’uso del pedale, per la sua morbidezza, per l’ampiezza della tessitura. La fuga dopo il preludio è velocissima e risuona straordinaria, senza l’errare di una sola nota.

L’interpretazione è particolarissima, sapiente e sospesa: la Roma notturna di luci artificiali nella sua limpidezza invernale si stende ai nostri piedi con facciate, campanili e cupole arcilluminate su chiese e palazzi per lo più barocchi o tardo-rinascimentali, uniti fra loro da filari di lampioni giallofioco che sembrano un po’ festoni luminosi.

Bach si dipana intanto fra uno stupore e l’altro sul contrappunto che si svolge per acuti sommi e trasognati, interrogativi, un po’ mesti. Ora s’intensifica l’uso del pedale e cambia la coloritura musicale, molto più intensa e quasi cupa, disperata. L’interprete è unico nel suo impegnare i tasti in modo sentitissimo, partecipatissimo con tutta la sua intera persona. Roma, con le sue cupole, ora appare come un’immaginaria grancittà russa in questo misto tra francese interprete, tedesco spartito e italo-francese ambiente (Villa Medici, appunto, nella sua sala maggiore con la vista sospesa sulla città).

C’è un addensamento di note: ed ecco Debussy, che è stato oggetto di discussione rispetto a Bach sul tema dell’Assoluto nel convegno, di cui il concerto è la conclusione, tenutosi nei tre giorni precedenti all’Università di Roma sulla “Fenomenologia del Melodramma”.

L’ineffabile dello scoprire che ciò che si sta suonando è proprio l’immersione in un acquario virtuale (“L’Église dans l’Eau”), quale appare questa città che è, e non è, ai nostri piedi, nei timbri delle vibrazioni agite dai tasti sulle corde del pianoforte. La sensazione di un mondo fantastico creato dal susseguirsi delle note, non solo inventato, ma compenetrato in noi, rigenerato al di là di ogni musica a programma. Sembra che le mie considerazioni “francobachiane” sul mondo immaginario si risolvano in Debussy, e nulla era saputo prima, come gli impegnatissimi studi sul “timbro” e sullo “strumentale” del pianista.

Ora ci sono come cenni d’impazzimento accentati al massimo dall’interprete in una tesi che chiede la distensione ritmica dell’arsi. Poi si trasogna in oriente con “La Pagode” e non si usa più lo spartito come invece per Bach, tutto è “par coeur”, “embedded” nel pianista che ci fa totalmente imbibire, bagnare nel liquido amniotico del mondo debussyano: così ci perdiamo in un cosmo liquido, perché di suoni estremamente fluidi, che si succedono per intervalli svariatissimi con crescendi e diminuendi che toccano l’intera gamma dei possibili colori musicali.

C’è quella familiare pastosità del segno debussyano in un tocco studiato nota per nota ma anche emotivamente sentito senza risparmio, nulla di razionalmente conchiuso, tutto aperto sull’orlo d’altri mondi, come in un caleidoscopio illimitato nelle variazioni, eppure preconosciuto, con itinerari e traiettorie tanto sublimi quanto evocative, dunque capaci di scoprire un modo sempre nuovo per raggiungere l’originario, il primigenio, ciò che è sussunto nella nostra stessa natura. Ed è uno scoppio di creatività, di cangianza, di forti che cancellano i piani, poi di piani che sommergono nella nostra memoria i forti. È il massimo possibile dell’uso del piano solista in una estrema e fantastica mutevolezza ove l’agogica, la dinamica sono di una variabilità con derivata seconda sempre positiva, salvo, salvo…

Questo tono misterioso, anzi misterico, esoterico, tutto orientale sa di gong primordiale, super sonoro e poi invece di mero riverbero solo echeggiante l’uso di semitoni per intervalli di quinta e così a scalare da questo timbro sospeso, interrogativo.

Ecco Scelsi e l’uso del pedale che fa “sparire” la nota, nel senso che la dissolve, la dissipa, la vibrazione si esaurisce in un ultimo armonico suono. La drammatizzazione del pianismo forte che diventa distillazione impegnativa e decisissima con staccati improvvisi, quasi urlati, la genialità di un grande compositore misconosciuto per decenni, almeno qui in Italia.

Occorre ammettere che Levinas, malgrado tutte le possibili obiezioni da puristi filologi accademici al suo romanticismo bachiano che a chi scrive tuttavia tanto piace, riesce come pochi a farci traversare mondi musicali iperuranici, forse laicamente mistici, la qual cosa è prerogativa specialissima e godibilissima. Complimenti!

Marco Maria Eller Vainicher