DUE GRANDI RESPIRI PER UNA SOLA ISPIRAZIONE

 

Diciamo subito che il titolo si riferisce all’inarrivabile gigante della composizione musicale Johann Sebastian Bach e al suo formidabile interprete, maestro Gustav Leonhardt, ambedue pervasi da uno spirito di religiosa ascesi difficilmente raggiungibile.
L’evento che sto per narrare in realtà non potrà più ripetersi dal vivo, con qualche mestizia per tutti noi, ma proprio per questa ragione esso va riferito “all’inclito e al volgo” per futura, piena, memoria.

Ordunque, a settantasei anni il maestro G. Leonhardt che, con l’altrettanto celebre collega Nikolaus Harnoncourt, ha registrato negli anni ’70 e ’80 l’integrale delle cantate (per la Liturgia sacra luterana) di J.S. Bach a noi pervenute (199 numeri), ha deciso che non dirigerà più soli, coro e orchestra necessari per eseguirle, dedicandosi esclusivamente a suonare organo e clavicembalo, i suoi due strumenti preferiti.

Ciò significa che il concerto svoltosi la sera del 20 novembre 2004 nella Chiesa Valdese di Piazza Cavour a Roma ha segnato la conclusione di una pagina di storia musicale di altissimo livello, che questo coltissimo musicista ha voluto chiudere con il Coro del Friuli Venezia Giulia e con l’Orchestra Barocca “G.B. Tiepolo”, anch’essa del Friuli, due compagini relativamente giovani e di interpreti non tutti professionisti, ma estremamente ben affiatate e guidate con spirito di ricerca.

Per loro e nostra fortuna sembra che sarà proprio il maestro Harnoncourt a proseguire questa straordinaria iniziativa dell’esecuzione delle cantate di Bach con la propria direzione di soli, coro e orchestra, la qual cosa testimonia di quanto evidentemente le compagini del Friuli Venezia Giulia siano tenute in altissima considerazione da due grandi “étoiles” mondiali, nonostante la presenza al loro interno di amateurs o volontari della musica. E ciò ci permetterà di assistere ancora in futuro nel nostro paese a un evento per la verità ben poco consueto nei paesi latini e molto più fruibile nel nord Europa.

Entriamo ora nel vivo della serata, unica per tanti aspetti e fra l’altro per lo stato d’animo da giorno fatale di chi scrive. La chiesa è in trepidante attesa, quando lo “Speaker” annuncia che il maestro Leonhardt non desidera alcun applauso né prima, né durante, né dopo il concerto. Lo “Understatement” è d’obbligo, e quì subentra lo spirito luterano così diverso da quello cattolico: occorre rispettare in religioso silenzio la sacralità del luogo e, non ultimo, la concentrazione di chi interpreta parole e musica con una partecipazione interiore e non solo esteriore, meramente fenomenica, come potrebbe darsi in una qualunque esecuzione profana.

Il maestro arriverà alla chetichella, a differenza di tanti “divi della bacchetta” italiani e non; nella sua esile figura fisica quasi non sarà visto dal pubblico al quale ovviamente darà sempre le spalle, posizionandosi senza podio ma con un piccolo sgabello d’appoggio contro un ampio leggio in legno a sostegno dei librettini di partitura e di fronte al coro, senza che appunto mai poi ci si rivolga verso il pubblico medesimo durante l’intero concerto. La sobrietà sarà d’obbligo, ogni inessenziale esibizione bandita severamente: trionferanno solo canto, musica e silenzi in un atteggiamento pressochè orante.

Chi scrive potrà osservare da vicino la discrezione e l’eleganza dell’uomo, la sua profondissima educazione musicale che farà del suo intero corpo, ben magro e flessuoso, uno strumento al servizio dell’interpretazione, con il suo gesto di direzione misurato e preciso, senza dover usare alcuna bacchetta d’appendice, se non braccia e mani un po’ piegate con i palmi rivolti verso il basso (quindi il dorso verso l’alto),  che scandiranno meravigliosamente i tempi dei vari brani delle tre cantate bachiane che verranno eseguite.
L’emozione è grande nel sentire e nell’osservare la simbiosi fra direttore e compositore che sembrano proprio respirare all’unisono (“enarmonicamente”), appunto, sull’ispirazione di matrice luterana, muovendo le masse corali e orchestrali insieme ai solisti delle quattro parti vocali.

E ciò, nell’estetica perfetta dei movimenti e del contrappunto, non può che commuovere l’ascoltatore partecipe: le pulsazioni sembrano proprio quelle che si vorrebbero concepite dal grande Bach, che pure non lasciò su questo aspetto indicazioni precise in partitura. Il superbo vegliardo Gustav fa cantare i coristi in perfetta simbiosi con i solisti, unendoli splendidamente fra loro e agli strumentisti. Il coro è molto ben armonizzato dal maestro ed è delizioso nel suo esprimere musica cantata da voci cristalline: lo scorrere della polifonia è tenuto insieme dal nostro direttore (o Kantor) con una facilità sorprendente e rara. La “danza” interna al basso continuo rispetta un’agogica misuratissima che sa appunto di respiro vitale e ci accompagna non solo acusticamente, ma in spirito. Tutte le parti sono così compenetrate da portarci naturalmente a una piena concentrazione.

Fra gli strumentisti è il flauto traverso a farsi limpidamente sentire su tutti gli altri, mentre fra le voci soliste l’alto (come già annunciato) manifesta qualche problema di salute. E Leonhardt, con grande soavità, risolverà la questione assegnando al basso il compito di sostituirlo: così, mentre in una breve pausa poco dopo l’inizio del concerto andrà dai solisti (le quattro parti), posizionati a lato, a dirimere con tanta discrezione il problema involontariamente sorto, potrò vederne dal mio scranno in prima fila il nobile profilo di vecchio saggio sempre a proprio agio, rassicurante e lievemente sorridente, col fare del buon padre di famiglia imperturbabile e misurato, ben consapevole del proprio ruolo.

La prima cantata ad essere eseguita nel concerto sarà la numero 131 di catalogo BWV, secondo il testo (ovviamente in lingua tedesca) “Dal profondo grido a te, Signore”, tratto dal Salmo 130 o “De Profundis” dell’antico testamento cui si aggiunge l’ode “Signore Gesù, tu sommo bene” di Ringwaldt, il tutto forse parafrasato dallo stesso Bach.
Siamo al più classico dei corali luterani, concepito per la funzione religiosa domenicale e in questo caso probabilmente eseguito per la prima volta nel luglio del 1707 a Mulhausen, quale cerimonia di riparazione dopo un terribile incendio di poche settimane avanti, con tutta la sua carica di orazione sacra, ma grazie a testi in lingua volgare e non latina, quindi all’origine più pienamente comprensibile ai fedeli.
Per la strumentazione sono l’oboe, il fagotto, il violino, le due viole e il basso continuo a esprimersi nell’ambito dell’orchestra barocca per farci sentire il clima dapprima funereo e poi misericordioso-riparatore della cantata.

La seconda in programma è la numero 99, concepita per essere eseguita nella cattedrale di Lipsia (per la prima volta nel 1724) e celebra la Divina Provvidenza, essendo basato il suo testo su un’ode omonima di Rodigast che va riferita al nuovo testamento e s’intitola “Ciò che Dio fa, è ben fatto”. Caratteristica musicale di questo corale è nella presenza dominante del flauto traverso ottimamente suonato dal solista dell’orchestra G.B. Tiepolo,
che verrà sovente affiancato in modernissimi giochi orchestrali dall’oboe d’amore. E ciò in vivace contrasto con le parti vocali più tradizionali che drammatizzano in stile ancora secentesco le asperità dell’esistenza umana rispetto alla Divina Provvidenza e al sacrificio di Cristo sulla croce, in cui occorre credere ed esercitare il perdono a propria volta per superarle e sentirsi sereni.

L’ultima interpretazione è della cantata BWV numero 115 (Lipsia 1724) che ha per titolo “Preparati, o anima mia”, nel senso dello stare desta, vigile, non farsi lusingare dalle tentazioni mondane di Satana, scordando Dio e il suo giudizio, che pur è così paziente e misericordioso, ma anche inflessibilmente giusto. Il testo è di Freystein, Lipsia fine del ‘600, mentre Bach ci regala una composizione ove si raggiunge veramente quel sublime a cui ci riferivamo nel titolo di questo sintetico ma partecipatissimo commento. L’attacco del coro ci rapisce e ci eleva subito l’anima con un’efficacia inusitata e commovente, di grande e intrinseca grazia. Seguono momenti strumentali e vocali di grande varietà timbrica e coloristica a seconda degli stati dell’anima che si vogliono rappresentare: dalla pigrizia accondiscendente alla vigilanza contro il peccato. Vi sono momenti soavi in cui il canto si dipana con struggente lentezza, momenti cupi e luminosi, con un testo che si conclude forse in modo troppo catastrofico per il nostro gusto moderno.

Abbiamo vissuto così mille emozioni, ma ciascuno nel proprio foro interiore, perché in silenzioso e rispettoso ascolto del canto di un coro di non professionisti com’è quello del Friuli Venezia Giulia, ma con un Cantor d’assoluta eccezione che ci ha allietati battuta dopo battuta, permettendoci di vivere un evento irripetibile e impareggiabile; grazie Gustav Leonhardt, di nuovo grazie.

Marco Maria Eller Vainicher
(gennaio 2005)