LA DOLCE MERCIAIA
(per una nuova Weltanschaung,
alias ‘ho sfiorato l’indicibile)

In sul far del mezzogiorno d’una chiara mattina
un poco freddina di questa primavera ancora
non vera m’en vò solo soletto a cercare, non
contraddetto, le arance sarde al naturale dopo
aver gustato per tutto l’inverno i tarocchi siciliani.

Ed è tranquilla, senza folla, quella breve
camminata sul nuovo mercatino nella troppo
trafficata Aurelia, dopo l’incrocio con la
circonvallazione Cornelia.
E lei m’arriverà: la gioia dell’imprevedibile,
dell’inconoscibile, della svolta impensata
che ogni vita ci offre in un suo punto
imprecisato, ma energizzato da fortuite coincidenze
che collidono e colludono, incidono, si dissolvono e
si ricompongono seguendo un’interazione mai prevedibile.

Gettando lo sguardo su una mostra di coloratissime
e svariatissime tende e tovaglie, eccomi apparire
seduta al sole nella sua gonna leggera, quasi
filatrice all’arcolaio, elegantissima fanciulla-
signora bruno chiara. Ella è in realtà intenta
ad un gioco enigmistico, in un passatempo
nell’improbabile attesa di radi avventori ed
a fortiori il suo fare rilassato, quasi abbandonato,
composto e naturale, per me è come la visione
della più bella creazione del mondo, che m’appare
generatrice di memorie mai sopite eppur rare…
Come la vista della mia amica Marcellina sul prato
di Montepiano, io treenne che decido di inseguirla
come imprendibile farfalla, ora bruna ora gialla.

In cuor mio esulto e mi sorprendo quasi un
canto interiore m’avvicinasse alle armonie
più celestiali, più universali e dunque più
mie, perché sacre e pie.
Così circonfuso, ma non spaventato,
supero appena l’incantevole creatura
dopo averla ben osservata e gustata
quale simulacro del bello sacro,
nella sua apparenza fisica come metafisica
per la forza vitale che in seno porta.
Mi permetto quasi subito d’aprir bocca
e di esternare questa gioia primigenia
nella serenità di quella carezza verbale
che mi dà la capacità d’esternare
la mia meraviglia, e vivaddio non
sarà un parapiglia, ma la dolcezza
e la delicatezza del parlarsi in
serena e tranquilla passione.

Saprò dalla giovane che il suo nome è
proprio Serena, di mia figlia la visione
del mondo che avrei voluto acquisisse
impartendole quel nome! Ciò dopo
essermi scusato per aver manifestato
il mio essermi fermato a complimentarmi
con lei, che ben volentieri accetterà
d’avermi reso felice e ben centrato,
nell’attimo così agevolmente e
benevolmente concentrato.

Quante volte avrei voluto riuscire a dire,
in momenti streganti, la mia volontà
di esternare e comunicare per insieme gioire.
No, non sento, e finalmente, cogenza in questa
altrimenti pensata violenza in supponenza
della ineffabile femminil beltà che sembra
contenere tutto il segreto della continuità
nella metempsicosi della vita umana,
attraverso l’incessante successione della
reincarnazione!

La creazione, come nel sole, in un fiore,
un panorama montano o marino,
un quadro, una scultura, una sinfonia
o una sonata, per archi o per piano;
la creazione è in noi, nel come vediamo
le meraviglie e gli orrori del mondo
e Serena, la dolce merciaia, è la riapparizione
delle apparizioni, è la scelta di così dar
nome a mia figlia, è nel mio commuovermi
ora, mentre scrivo scoprendo la possibilità
di raggiungere l’equilibrio spirituale e non
solo mentale.
Quanta fragilità, quanta vulnerabilità,
mi possedevano mio malgrado...

Quanta sicurezza, quanta certezza m’ha
regalato la fine merciaia nel suo approvare
la mia capacità d’amare, che certo
non potrà mai più farmi vergognare
rispetto al mio insistente domandare
il perché dei tanti traumi e travagli,
vissuti e cresciuti in abbagli presi e
pasciuti con misteriosi amori incompiuti.

Serena non è un abbaglio, è l’eterna
bimba apparentemente indifesa, ma ben
difendibile, che alberga nel mio essere
sempre bambino, capace d’afferrare
lo stupore nel caso e di giocare con
l’enigma come lei stava giocando,
tanto modestamente e sobriamente,
ma anche fantasticamente in una
naturale beltà senza età.
Quanto è catartico, mio Dio, potersi esprimere,
e con poesia, ché la preghiera è formula vuota
se la ripetiamo a memoria, quale estranea
nenia liturgica; anche se il canto è fatto di
creazioni poetiche, parole e musica, che noi
ci ripetiamo per dar senso a nostra indefettibile
ricerca di senso, che solo la Musa delle muse
è riuscita oggi, e con sua sola presenza, a donarmi.

Marco Maria Eller Vainicher
(16-17/04/2009)