DA GIORGIANA

Quanto appare indifferente
eppure è dirimente lo strumento
afferente di scrittura coinvolgente
quando t’impedisce di comprendere
tua espressione subito nascente
e d’aver risposta saziante a tuo
sentimento partoriente. È così
importante poter comunicare con
sé stessi nei passaggi isolanti e poter
saper amare nei momenti abbandonanti.

La meraviglia d’accorgersi disponibili
mentre ci si crede impossibili con atto
d’accettazione per amara sospensione
di vicenda d’amore in perdizione
da paranoia incipiente e sconvolgente:
“Amba (o amorbarbara) ricapitolo:
abbiamo deciso di scendere nel silenzio
che tu solo romperai quando vorrai, salvo…”

Alle 11 esatte di quel mattino ecco la risposta
purtroppo consenziente, volente o nolente:
e sembra iniziare una lunga attesa di grande
pazienza ma anche di clemenza verso il proprio
cuore martoriato da tanta sofferenza.
Solo una mezz’oretta dopo, e forse ancor prima
ch’io possa leggere quel messaggio d’approvazione
che forse sarà la mia dannazione, eccoti incontrata
una giovanetta molto arguta e smorfiosetta e invitata
al mio “Café Philò” ove non verrà, se non per una
inavvertita visitina da me non percepita.

Sarà nel pomeriggio di quel meriggio, dopo
passeggiata beata in quel parco da me amato
perché d’essenze fiorentine ben formato e di vista
su mia attuale casa paravaticana ben affacciato,
che avverrà quello stupendo rincontro con la
nipote di Giorgio e Anna, la Giorgiana flessuosa
e in apparenza vana, ninfa sibilla di boschetto
con casetta subito vicina e con amorino giocherino
per via d’un fil rosso che sarà il mio laccio di
cuoramore per afferrare la gioiosa e giocosa bellezza
vogliosa e super adolescenziale della quindisedicenne
sesquipedale.

Mentre penso che da qui dove scrivo posso guardare
il luogo di quella scena celestiale, memoro
il mio stupend’errore iniziale che m’ha permesso di
ricevere il più bel paragone d’amore visuale. Ha lei un
gran golfone azzurro che la rende celestiale e un nipotino
dagli occhi azzurr’intensi: così le dico dei suoi occhi ch’io
vedo celesti. “No, i miei occhi son verdi come i tuoi:
abbiamo gli stessi occhi”. E non è importante chi di
noi due può averlo detto, è un atto d’amore e basta,
d’assoluto amore per il nostro cuore, come per quei capelli
che temo ingrigiti e da lei son ritenuti di gran fascino dotati,
perché biondo cenere con riflessi iridescenti e sempre cangianti.

Sarà come al risveglio della bella addormentata nel bosco
il ritrovarsi con simile principessina così straordinariamente
carina e senza timore alcuno di ritrosia: è un gioco favoloso
così raro e ardimentoso che, seppur in attimo fuggente,
mi ha donato un vissuto mai prima evocato né forse sperato.

Marco Maria Eller Vainicher
(21 febbraio 2005)