UNA VISITA ALIENATA   

Per me perdere la penna é
un po’ come perdere la bussola
e in questi giorni caldo-grigi,
perché nuvolosi e umidi,
mi capita troppo spesso di perdere
la direzione, di sentirmi disorientato
senza scopo e senza senso. Sono
spossato, forse per un’infreddatura che
m’ha lasciato senza forze, ma soprattutto
perché riprovo quell’amaro disagio esistenziale
che mai m’ha condotto verso la vita,
semmai verso un abominevole senso di
perdita, come di minaccia continua,
finanche di morte e di solitudine.

È il ‘pondus’ che tanto afflisse l’esistenza
di tanti altri e oggi l’affligge: mi hanno
portato al Santa Maria (della Pietà),
all’ex lager manicomiale che ora
si è ritinto, rimbellettato, ripulito ma che trasuda
di sofferenza dura e cruda e ove credevo
di poter fare un mio recital poetico-musicale
per gli ex internati. L’esperienza è stata
sconvolgente e soprattutto troppo coinvolgente.

M’hanno buttato in mezzo a un laboratorio
teatrale del quale non conoscevo il senso
ed è stato duro stare dentro uno stanzone
ove tante persone dovevano far le comparse,
pur con i loro fardelli personali, anche
di salute fisica, e non se ne vedeva
il motivo se non la “fuga terapeutica”,
lo stare insieme per lo stare insieme.

Il regista m’ha subito inquadrato con un “ma
che bella faccia da intellettuale mitteleuropeo!”,
il chè m’ha dato alquanto fastidio, come una
botta d’aggressività involontaria e subito m’è
stato detto che avrei potuto diventare dei loro.

Mi son sentito cooptato mio malgrado in un
gorgo centripeto e la cosa m’ha spaventato,
intimidito, direi avvilito e messo a disagio
per quell’atteggiamento molto parrocchiale
e pretino, tribale o “clanish”: o dentro o fuori,
appunto, e come vogliamo noi.

Non sapevo come rapportarmi al tutto
e m’ha impressionato che in pieno sole,
con fuori quella sorta di verdissimi ‘campi elisi’,
ci si fosse rinchiusi con le finestre oscurate
e i riflettori accesi per ricreare un’atmosfera di
teatrale patetismo. Non andavo lì per farmi
ingaggiare sotto la direzione di un capo (il regista)
per fare l’attore fantoccio (già Stanislavsky!).

“Ma anche i gesti teatrali sono poetici”, dice la
psicologa massima che m’aveva invitato. È ovvio,
ma io volevo fare un’altra cosa, portare in dono
la mia poesia e buona notte. Non essere preso
a fare qualcosa, mentre sentivo di doverne fare
un’altra, vieppiù a ricoprire un ruolo non scelto.

Poi il colloquio con la capessa psico-organizzatrice,
anche pieno di riferimenti alti e profondi, ma in
fondo untuoso e per molti versi per me poco
sincero e paritario, certo imbarazzante e doloroso,
ha preso il resto di quel triste meriggio.

Abbiamo dovuto sederci su un cubo di cemento
(forse un serbatoio d’acqua o qualcosa di simile)
che m’ha fatto il sedere quadro perché, ed è
la prima cosa che si nota, non c’è una panchina
per poter magari conversare o riposare in questo
apparente parco pubblico, pieno di padiglioni
gialli ridipinti di fresco. C’è qualcosa di tetro e
di artificioso, di gran finto in questo apparente
parco giochi, che sa invece di luogo di ossificate
sofferenze e costrizioni, piuttosto che di amenità.

Alla fin fine una conversazione ‘fratta’, interrotta
da una reticenza sistematica, indicibile, sui vari
ruoli, figure, appartenenze affettive ed effettive.
L’idea è che avrei dovuto farmi conoscere dalla
“comunità”, che ha pure il nome teatrale de “La voce
della luna” e che poi il musicista a me d’accompagno
avrebbe dovuto essere di loro scelta, dopo aver
selezionato testi insieme al giovane psicologo che
m’ha accompagnato con fare apparentemente
defilato, ma d’impegno dissimulato.

No grazie, proprio no, semplicemente no.
Non desidero appartenere a un reclutamento
alla rovescia, o recluso o accusato di voler
essere capo se fo da solista, quando la poesia
nasce per sua natura solitaria, ma è per gli altri:
‘accà nisciuno è fesso’. Volevo solo fare il dono
di un ospite, volevo dare un dito e mi volevano
prendere il braccio. No, per dio, no!

Volevo solo aggiungere che, come al solito,
tutto dipende dal contesto e che nulla
è da rifiutare a priori ma nemmeno nulla
da accogliere indipendentemente dal proprio
sentire del momento… 
Come?! Uno ha le idee chiare, il recital gli
sembra il modo per essere nel mondo e arriva
una che mette in discussione tutto senza averlo
mai visto o incontrato. No grazie, no.

C’è proprio un rapporto terribilmente autoritario,
una forza d’inerzia sghimbescio-lupina in questo
“Ho braccia ben grandi per abbracciarti meglio”. 
Meglio sottrarsi all’abbraccio, meglio meno, ma
meglio. Il vortice asimmetricamente offensivo:
“Ah, oggi pomeriggio mi sono dedicata tutta a
Marco”, dunque non ai quasi ex alienati che
la reclamavano, m’è sembrata poi la stoccata
finale.

Evviva il trasformismo paternalista: “Dio mi
salvi da chi mi vuol salvare.” E tanti saluti!

Marco Maria Eller Vainicher 
(28 maggio 2004)