AD ABUNDANTIAM!
“Il poeta trasforma i sogni in realtà”: questa
constatazione penetrante è di Yves Bonnefoy,
francopoeta di mia effettiva affinità creativa.
Così io in questa giornata forse dimidiata,
tuttavia straordinaria per la forza interiore
che sto ritrovando in questo mondo tanto
superiore quanto inferiore, ho superato me
stesso giocando come tanti giocolieri con i
miei desideri ed ottenendone stupende
soddisfazioni ed altrettante delusioni: scrivo
da dove l’altra sera potei dedicarmi ad una
japonica Idlikò, che più vivace non si può, e a
mia infanzia in felice rimembranza di questo
parco affettivamente piacevole per essenze
gradevoli e varie, nonostante la presenza del
treno che tutto sciupa, in di metallo puzzolente
osceno, quando a velocità pazza impazza
sbucando o entrando in, da mio avo realizzata
e poi incendiatasi, galleria ingoiante e ributtante.
Ordunque stamani, per giochi di destino alquanto
strani, vicino alla spiaggetta di memoria sola
soletta ho potuto ammirare un notevole fondo
schiena, fasciato da un paio di pantaloni verdi
marroni indossati con femmineo incedere elegante
da donna senza tempo. Immantinente ho
deciso di tuffarmi in mare per seguirne il cammino
ed ho fatto un bagno di lungo costa fra i più beati,
inseguendo l’idea di raggiungere quella creatura
un poco dea. Ma ad un tratto ho avuto un bisogno
corporeo ed il mio sogno s’è realizzato in pudore
cercato: mi sono voltato per non farmi vedere e
volgendo solo le terga ad eventuali occhi indiscreti
e forse faceti. Poi con qualche bracciata ho raggiunto
la riva ove la figlia giocava con la mamma e non m’è
sembrata d’età per me abbastanza maturata. Così
son risalito sulla spiaggetta che costudiva nell’antro
mitico il “Flying Dutchman”, Cutter forse trialberi
di mia infanzia fantastica ed ora qui rinata.
Tutto questo mentre due tortorelle qua volanti in
libertà s’appropriavan d’un pezzetto di pane scuro
che m’era caduto inavvertitamente dal tavolo e se lo
beccavano beate, con una che mi raggiungeva con la
scusa di quella mollica, per forse provare l’emozione
del nuovo e del proibito che è nella vicinanza all’uomo
stordito da tanta fiducia e familiarità; poi ad un tratto,
e giustamente, spiccano il volo d’improvviso in un frullo
d’ali che anima di sé i raggi già obliqui del pieno meriggio.
Un giocatore s’impegna al bridge e mi fa deviare il pensiero
in suo troppo partecipare, però questo mi sembra un luogo
ideale per lavorare al mio poetare senza limitare.
Così ritorno al mio quasi congedare quella spiaggetta
di sogno nell’attimo del mio chiedere aiuto per gli
occhiali serbati in tanto nuotare e pieni di spruzzi
da asciugare. Userò un asciugamano lì steso da
signore gentile, che scoprirò esser di mio anno
di nascita, papà di quell’Alessandra che la quinta
ginnasio ancora deve fare e del 21 aprile, nascita
di Roma, sua nascita è ma nel 1990 dopo Cristo
e non nel 743 avanti Cristo, con uno scarto di 2733
anni o giù di lì. Che volete che siano i tre che pensavo
in più o i forse quindici, forse venti in meno che lei ha
rispetto a Marina, la scrittrice amena il 12 dicembre
nata, che con me ha passato la serata, e che di Fernanda
Pivano è grande amica, come per me di Pavese la Bianca
Garufi mia sodale è evocatrice, in chiave di piano oltreché
di violino, e anche della casata junghiana che i tipi
psicologici descrisse e d’ascendente sagittario, per gran
nome nascosto ma staordinario,
lei porta l’eredità e l’eccezionalità.
È stata oltremodo amena la conversazione con la mamma
e il papà d’Alessandra che quei pantaloni così attraenti mi
ha mostrato, qual prova provata della sua seduzione felice
lungo il cammino dallo spiaggino, mentre io la seguivo
marino marino proprio in quella marina che m’aveva visto
conversare nella sera prima con Marina. Una campanina
ci fa adesso un concertino a mo’ di carilloncino, perché
son le cinque e mezzo d’un pomeriggio domenicale ed è
così ameno il parco en plein air da Renoir ed impressionisti
vari a mia memoria dipinto, quasi fossimo al “Moulin de la
Galette” per quelle macchie di luce tra le foglie che animano
la tavolozza naturale di questo meriggio sì speciale.
Una bimba biondissima, col profilo dei capelli illuminato
dai raggi solari e tutta vestita di rosa, compresi i sandalini
iperelegantini, mi ricorda che i bisognini son di tutti noi,
vecchi e bambini, e m’indica dove andare per soddisfare
la mia necessità di pipì fare...Per poi ritornare al mare
ove il telo di spugna ho lasciato, oltreché una situazione
alquanto bizzarra: verso l’ora di pranzo, rientrando per
andare a mangiare, son stato colpito da una straordinaria
Lolita con un babydoll bianco da capogiro su leve
stupendamente aggraziate e proporzionate in un
insuperabile femmineo modo di fare, quasi fosse
consapevole di tanta avvenenza manifestare
col suo naturale ancheggiare ed il suo suadente corpicino
così mostrare per il prossimo in bellezza far deliziare.
Così Nabokov con le sue insuperate espressioni stupefatto-
erotiche m’ha fatto ricordare ed ho avuto la coraggiosa
incoscienza di chiederle nome ed età, mentre a palla
giocava con sua amichetta certo prepuberale dagli occhi
veramente belli, qual bimba che forse potrò rincontrare
oltre i suoi due o tre anni di sogno e che gentile con la
mammina mi sapeva salutare e con quegli occhi grandi
tenerissimi guardare, poi in braccio al padre capace di
tanto educarla per l’affetto filiale conoscere.
Non così per Giulia e Nicoletta, la prima che di tredici anni
si diceva, ma in realtà in suo segno di vergine astrale con
superiore erotismo di tardo dodicenne sublimale, sapendomi
così stimolare, essendo nata il primo settembre del 1992.
Mentre le regalavo mia ultima poesia in inglese, essendo lei
figlia d’uomo di Liverpool, e davanti a un nugolo di
ragazzi giocanti arriva la mamma agitata di Nicoletta,
neanche undicenne ma su internet capace di andare
senza come i vecchi inciampare. E la mamma
dietro a indicarle come potermi incastrare, sol perché
volevo con le bimbe poter ricomunicare, in suo
antipoetico sospetto di mia ipotetica molestia, che
merita il motto della gran britannica giarrettiera:
“Honni soit qui mal y pense”! La meschinità del
mondo non è un girotondo ed il pane non è sempre
cotto in forno per tutto il giorno... quasi si fosse in
una filastrocca per smaliziati bimbi giocanti.
Marco Maria Eller Vainicher
(Bonassola, domenica 26 giugno 2005)
A SAN GIORGIO
Stamani la mia prima alzata di sguardo
è stata per la chiesetta di San Giorgio,
che solitaria lassù illuminava la vista di
riflesso ai primi raggi del sole che facevano
di suo alto campanile a cupoletta lanterna
abbagliante come il rosone raccogliente
le forze d’oriente, che arrivano con l’astro
nascente e ci spingono ad inclinarci
a tale direzione proprio energizzante.
Ora son qua sull’abside della chiesa mentre
un rintocco del tocco mi sorprende non poco,
quasi avesse la sapienza d’un fuoco acustico
vibrante che mi rimette in comunicazione
con mia memoria d’infanzia, mentre mi sono
messo a scrivere su olivo ritorto (c’è un nuovo
colpo di batacchio che sembra suonare a
morto), a giacere su sediolone naturale per
farmi rimembrare mia prima immagine,
ancora primordiale verso l’ulivo del toscano
casale ove mi ritrovai a percepire non so se
per primo o secondo lo stesso alito argenteo
di foglia nel firmamento, qui di mare che è
un portento, e là su mia collina fiorentina
a perdita d’occhio nella varietà della non città,
che mai permette il malocchio, ma sempre ti
fa chiedere che cosa si nasconde dietro l’orizzonte,
celato dai multipli profili dei colli verdolini.
Qui c’è la scoscesa discesa al mare biancheggiante
sui bordi di costa e scrosciante per musica di natura
ritmante su ondulante risacca permanente.
È giornata fortunata per la brezza alitata
che quassù alleggerisce la calura e permette
d’osservare tranquillamente tanta fioritura
di girasoli, plumbaghi o gerani detti francesine,
che tanto piacciono alle bambine un poco
smorfiosine e tanto delicatine da far allarmare
contro il poeta le proprie ignoranti mammine...
Mi sento fluire un alito pervasivo che il mio spirito
tutto accoglie e raccoglie, e quel profilo di pini sul
crinale del colle appare quale fotografia di una
discesa di veri Sioux in fila indiana desiderosi
di fare una scorreria a valle, ove regnano
i bisonti bianchi di mare, quando i compagni
cavalloni scalpitano in tanti rovinosi marosi.
Son cacce immaginarie rispetto a Manlio
il sublagunario che tutto nero mi compare
con le pinne da immersione e poi senza saperlo
mi pesca pesciolini da bollire, quali cefali super
curiosi o branzini che vanno in coppia come
fratelli gemelli.
Ricordo allora le aragoste pescate sotto la
Madonnina, in nasse catturate e ora non
più appalesate, chissà perché? Un, due, tre,
bim, bum, bam, e ho escluso i pesci carabinieri
perché i loro omonimi alquanto disturbo mi
hanno arrecato in contorno per generico
impaccio di ritorno, mentre mangiavo in
giardino giulivo e li invitavo a sedersi con
me, che aprivo a loro presenza con suprema
accettazione e m’ha meravigliato tanta invadenza
per inattesa presenza, un po’ scocciata e non
proprio educata: ci si siede davanti a chi sta al
proprio desco in presenza d’altri commensali
o gli si dice che fuori lo si attende per non dare
l’idea che si pretende di non conoscere chi
tanto si è fatto conoscere per sua arte e non
violenza di parte di chi li ha ingiustificatamente
appellati.
C’è chi vive d’isteria da paranoia collettiva,
perché di troppa televisione e sensazionalismo
sulla pedopornografia si nutre in follia. La cultura
del sospetto è quanto esiste di più abietto, e linciaggi
e caccia alle streghe l’hanno tanto riprodotta per tutti
i secoli bui, qual son questi tempi fra gli stupidi di
cui si narra in tutte le storie di camorra, mafia e far
west ove si è forti con gli innocui e innocui con i
forti, alimentando la cultura xenofoba della
paura e diseducando i giovani: chi fa la spia...
Ma qui era tutto in evidenza alla luce del sole:
un colloquio con giovinetta ragazzetta aleggiante
e civettante suo malgrado in sommo grado.
Siamo proprio allo stato brado...
Mi riapproprio di mia natura che è cultura
in questa San Giorgio tardo rinascimentale ed
è incredibile la varietà di odori, sapori, sentori,
colori, tutti qua fuori mentre le verdi selci di
lavagna color foglia d’olivo fan da terrapieno
all’abside calcificata che sulla facciata si avvolge
in un rosellino pallido pallido, incorniciato dal
giallino decorato di lesene e multicolore rosone
barocco con pennacchi piegati dal lato del vento
di mare e perciò verso monte a petto.
In ferro battuto è il segno a banderuola d’un
San Giorgio lanciato col mantello alato e sotto
troneggia l’orologio quadrato, che segna il tempo
dalle campane scandito in albore e rossore a
menadito, sempre io stupito da inquietanti
pinnacoli che sanno di usberghi, mica tanto
pacifici nel loro incappucciamento da Ku
Klux Clan ante litteram.
I fiori gialli spampanati della pianta grassa di
turno m’ingannano perché, nel farsi toccare
svelano, come Giulia la ninfetta, spine
pungentine e sospettosine, piuttosto che
ingenuine come mia fresca per lei poesia.
Vedo poi le linee di frangi fuoco nel bosco
e sotto il cimitero da basso su Bonassola
a mare, mentre il treno sferraglia in gran
corsa: ed ecco i miei cipressi che ombra
resinosa mi fanno fra le gran pignette
verdi e marroni, ma alla minuscola città
dei morti mi conducono. Là trovo tre
uccelli belli defunti, evidentemente
adulto e pulcino, ove la vita più bassa di
vermi e formiche si rigenera indifferente
di fronte alle tombe dei Colliva, il cui
capostipite Edmondo fu l’assistente di
mio nonno con la stessa età di mia nonna,
mentre la moglie Maria era la sua migliore
amica e per me una zia! Scopro poi il terzo
uccellino: tutti uccisi da un cristallo assassino,
che protegge dalle intemperie questo cappellino
e penso alla traslazione di mia mamma
sentendo l’odore dolciastro di morte: che
strana sorte di scioccato incompreso la mia.
Proseguirò infine per Montaretto ove la casa
del popolo raccoglie la piccola memoria storica
del borgo montano e dove l’aria fina a quell’
atmosfera m’avvicina. Uscendo poi dal paese
vengo fermato da tanta bellezza di natura per
le chiazze di cielo che sono la superficie del
mare, come quelle del mare che sono il riflesso
del cielo e m’immagino miriadi di pesci volanti
nel mare guizzanti, con in ogni momento una
sorpresa di ricongiungimento anche mio
isolamento dissolvente…
Marco Maria Eller Vainicher
(30 giugno 2005)
LA STUPENDA IMPERMANENZA
DEL TEMPO DI BONASSOLA
Appena sopra San Giorgio, sono nello
stesso punto di ieri ma, salvo gli uccellini
che continuano nei loro canti
cinguettanti, tutto è mutato dopo la
forte acquata della nottata e della prima
mattinata e financo da quando questa
mia brev’ alquanto poesia è iniziata. Prima
il mare biancheggiante con le sue trine di
costa era a chiazze verdi di diverso fondale,
nella bruma soffusa di leonardiana pittura,
poi il sole illuminava sempre più quell’ex
temporale e dava al mare l’azzurro smeraldo
che tanto impressiona lo sguardo d’ogni
osservatore di questi luoghi per forza amatore,
quasi fossero di natura svizzera o californiana!
Il solito rintocco, ed è la messa dopo le
dieci, ma la paglia bagnata sa ancora di
fieno appena tagliato nel primo mattino
ed ora il cielo si è ricoperto di nuovo in
un’ombreggiata sul sole che lascia vasti
sprazzi d’azzurro ma incupisce il mare
sempre ilare di scrosci sulla sua spumosa
battigia, mentre rimane brumosa la linea
d’orizzonte lontana. A Genova devo andare,
ma non mi potevo non fermare a respirare
e a guardare come se mai questo luogo
potessi lasciare, mentre il vento scuote l’ulivo,
in immagine posto nel mio capo fiso, e un
micino m’osserva da sotto in su: piove di gocce
cadenti dalle brune foglie e son voglie...
Marco Maria Eller Vainicher
(primo luglio 2005) |