IL SACRO CUORE
Quelle scale impervie mozzafiato
di sapore medievale e piramidale,
quella facciata ben illuminata
a guscio ingrandito che t’abbraccia
lo sguardo ed è forse d’Arnolfo
che subito mi richiama Fiorenza,
come la ben più comoda scalinata
che conduce alla piazza michelangiolesca.
In opposizione c’è dall’altro lato qualche
tronfio orrore umbertino sovrilluminato,
tanto per non scordare la pretenziosità
del potere incombente e irrompente, contro
la sensazione d’essere in un’arcana magia
che fra i lunghi anni e copiosi trasecola.
Sto entrando in Santa Maria d’Ara Coeli
per ascoltare il Magnificat di Bach e nella
vastissima chiesa carica di memorie e
d’opere eccelse la folla è già fitta, così
dovrò usare del mio esser commentatore
musicale per potermi avvicinare al transetto
orchestrale col coro, i soli e un direttore
narrante oltremodo affabile e coinvolgente.
Sarà sintesi sublime vivere in tanta
bellezza di contesto la musica bachiana
eseguita all’italiana, tanto da ritrovare
memoria sia vivaldiana sia händeliana
in una festa vocale e strumentale con
l’organo a fare da “pendant” trionfale.
Si insinua così il ricordo infantile di
quando assistevo alle messe cantate
per le feste comandate e il sapore
nostalgico è alleviato dalla freschezza
dell’esecuzione e dalla bellezza delle
splendide coriste e delle soliste così
eleganti, così vezzose, così sensuali.
Impregnato di musica e di grazia rare,
uscendo mi rivolgerò a una slanciata
monaca in grigio, dalla parlata a me
incomprensibile, per chiederle del suo
ordine, che in italiano è dello stesso
nome di quello della mia parrocchia di
bimbo fiorentino.
Scenderò i primi gradini con quella
giovane polacca, dalla veste così altera
perché con una grande alzata rigida del
velo sopra la fronte che da bambino
m’avrebbe tanto intimorito e ancora
m’incute gran rispetto: si parerà davanti
a noi un serale panorama che mi darà la
vertigine perché m’accorgerò di non avere
più percorso quella scalinata dai tempi
della cosiddetta lupa capitolina, povero
animale allora tenuto in gabbia a ricordare
la leggenda fondatrice dell’antica Roma.
Sono forse tanti anni quanti quelli che mi
separano dall’infanzia con la mia dolcissima
Suor Maria Grazia, che fu di certo il mio
primo amore di bimbo al di là di quello per
la mamma, quando andavo a scuola dalle
Suore di Nevers di Piazza Savonarola a Firenze.
Fra sogni, memorie e fantasie, ebbro di musica
sublime, vivo e rivivo la vita per occasioni
profondissime come questa e mi riafferra intatta
quella visione d’infanzia oramai creduta perduta
da anni, come la presenza materna non a caso
rievocata da quella madonna alla cui intenzione
è dedicata la chiesa ove si è svolto il sacro concerto
bachiano.
Tutto combacia, tutto è complice ed è senso di vita.
Marco Maria Eller Vainicher
(16/01/2006) |