CON GLI OCCHI DI LAURA?
(e la memoria dei fiori)

Già, quel soggetto gran specialista
del GianLorenzo supergenio, che con
la semplicità del divulgatore massimo
catturò anche la mia attenzione in voce
suadente e accativante, non s’è più
appalesato quasi fosse intimorito da
troppa mia intelligenza di sua scienza.

Tuttavia la Laura giuliva antiguida per
antonomasia grazie a suo contratto di
lavoro pressoché obbligatorio m’ha
dovuto convocare com’in altre occasioni
a quella gran Borghese galleria, trasformata
in folle fabbrica seriale per masse incolte,
ov’anche chi s’occupa degli igienici servizi
è più consapevole ed esperto delle cose
d’arte di quella vil soggetta arrivista e
supponente che vi esercita il suo ferale
potere, posizionando la Fornarina del divino
sul riquadro d’una porta, quasi a punirlo pel
suo talento troppo perfetto che lo fece
triangolare con Leonardo e Michelangelo
nella costruzione dell’insuperato fiorentin
rinascimento ad eterno memento.

Ma ecco che, mentre ci dovremmo concentrare
sull’algida Paolina malfinita per eccesso di
lascivia – tuttavia per me un dì quattordicenne
modello (neo)classico di fantastica beltade –
(oggi direi quasi da Sherazade odalisca suprema),
è sull’Apollo e Dafne che capitiamo, il berniniano
capolavoro la cui spiegazione mi fu donata dopo
la mia intravveduta ad Ale col flauto collegata dal
gran critico d’arte, eterno roman sovrintendente
(oramai in decadenza).

Ed è per me amabile il soffermarmi sul volto del
giovinetto dolcissimo che cerca di cogliere la
ritrosissima e troppo casto-monacale in pianta
mutantesi ‘Dafnaccia’ che amore scaccia nella
celebrazione della sessuofobica e controriformista
isterica ascesi che da Fauna a Flora riduce la nostra
ineludile umana animalità.

Uso allora il barocco di mio fraseggio paramusicale,
per esprimere l’oscena beltà della circonlocuzione
suprema di quel monumento alla irrealizzabilità
stregante del più semplice ed eterno degli atti
d’amore natural-animale. E m’avvicino così al
casuale collocarsi in angolo di mio terrazzo
ponentino d’albero, vuoi da fiore vuoi anche
da frutto, che chiamerei pesco-ciliegio e ch’è
tutto catturabile nella memoria del futuro
dall’oblò di mio bagno-cappellina, che lo rende
ancora più prezioso allo sguardo rapito di me
che mi lavo e per gli altri lo fotografo. C’è l’uscita
dal buio in eterna rifioritura mutante nel ciclo
morte-vita-morte e/o vita-morte-vita.
Senza il fisico amore non ci sarà il metafisico e
viceversa.

Marco Maria Eller Vainicher
(02/04/2018)